9 ottobre 2010 – Il Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo è una scelta bellissima, coraggiosa e senza ombre. È il riconoscimento alla grande tradizione democratica cinese, quella che né le guerre civili né l’occupazione straniera e neppure sessant’anni di dittatura sono riusciti a cancellare.
È l’omaggio ai ragazzi della Primavera di Pechino, alle vittime di piazza Tian An Men del 1989.
Liu Xiaobo incarna oggi questa Cina invisibile ma preziosa per il destino del mondo. Non ha la grandezza di un Solzhenitsin o di un Sacharov perché i tempi sono diversi. «Oggi il suo nome è sconosciuto – ha detto la moglie Liu Xia, che è la sua voce visto che Liu è relegato in una galera – ma un giorno anche se non sarà visto come un eroe, sarà considerato come un ottimo cittadino, un esempio da seguire».
Il buon cittadino Liu, quello stesso che tornò dagli Stati uniti nel 1989 per unirsi agli studenti di Pechino, non è uno dei “ragazzi arrabbiati” di piazza Tian An Men: sulla piazza tre giorni prima della strage iniziò la più alta forma di protesta gandhiana, lo sciopero della fame, insieme alla rockstar taiwanese Hou Dejian. Erano giorni straordinari e con gli studenti più arrabbiati si schieravano a modo loro volti noti, intellettuali e gente qualsiasi.
Chi portava cibo e acqua ai ragazzi, chi scriveva proclami, chi improvvisava un concerto rock, chi semplicemente era lì fisicamente presente. Anche il segretario del partito comunista di allora, Zhao Ziyang, scese in lacrime tra i dimostranti per cercare una mediazione e pagò con gli arresti a vita.
La via scelta da Liu fu appunto quella della testimonianza non violenta per eccellenza: «Io non ho nemici, io non ho odio» è la sua espressione più famosa per descrivere cosa prova nei confronti dei poliziotti che lo hanno tormentato in questi anni, dei giudici che lo hanno sballottato tra prigioni e campi di lavoro. «L’odio corrode la saggezza e la coscienza delle persone e può avvelenare lo spirito di una nazione». E questo il messaggio che ci arriva ancora in queste ore da Liu Xiaobo, un messaggio di ottimismo e di speranza perché, scrive il Nobel per la pace alla moglie (così amata, «il tuo amore è la luce che trascende muri e sbarre»), «nessuna forza può bloccare il desiderio umano di libertà».
È una grande lezione per un mondo diviso dai conflitti religiosi e razziali. Una lezione appresa in anni di persecuzione in cui Liu Xiaobo non ha mai perso la sua lucida consapevolezza che un mondo migliore (e una Cina migliore) si conquista giorno per giorno, con la coerenza delle proprie azioni.
Ne esce malissimo l’Italia (non solo il suo governo perché in politica internazionale il governo italiano è l’Italia, non esistono due Italie). Berlusconi, con l’inchino non richiesto al suo collega cinese Wen Jiabao solo qualche ora prima dell’annuncio del Nobel, ha esaltato non la Cina come grande paese e come potenza economica ma il suo governo, come modello addirittura da invidiare. Invidia per un governo autoritario e corrotto, nato sul sangue e sulla cancellazione di una intera generazione; invidia per un regime che ha saputo rispondere alla notizia del premio solo con la censura. L’Italia continua ad allinearsi con il peggio che esiste oggi nel mondo, riuscendo a scrivere una pagina di cui non potremo che vergognarci per lungo tempo.
(Europa Quotidiano)